“La sinistra all’epoca di Renzi” di Carlo Freccero.

Hammer and SickleEcco una importante riflessione di Carlo Freccero apparsa sull’ultimo numero di Alternative per il Socialismo.   E’ una analisi lucida e rigorosa, ricca di intuizioni e sollecitazioni per capire la condizione attuale della politica italiana.   Ci pare una tappa utile per iniziare un percorso critico nei confronti di un pezzo di storia che ci riguarda e che potrebbe aprire ulteriori riflessioni per ricostruire una “nuova sinistra”.    Buona lettura!

marco sansoè

La sinistra all’epoca di Renzi

Carlo Freccero* 

Renzi ha portato a termine il lungo percorso politico ed intellettuale per cui il pensiero unico ha preso il potere, svuotando di senso l’opposizio­ne destra/sinistra.

Nella visione di Renzi, che si presenta post ideologica, solo i due partiti mag­giori possono competere, proprio perché nei rispettivi programmi non ci sono differenze sostanziali.

La competizione non è tra programmi, ma tra candidati, testimonial. Moti­vo determinante per la scelta da parte dell’opinione pubblica, la simpatia del candidato, la telegenicità, la capacità di comunicazione.

I programmi sono “ideologia”. E se non ci sono differenze tra destra e si­nistra, fare va comunque bene, perché governo e opposizione vanno nella stessa direzione.

Nella sua introduzione al classico di Bobbio su Destra e Sinistra, Renzi si cimenta su cosa possiamo considerare di sinistra. Per Bobbio è di sinistra l’e­guaglianza. Per Renzi sinistra è sinonimo di progressismo e quindi di cambia­mento. Se la sinistra non è in grado di evolversi, di cambiare, diventa conser­vazione, destra. Se vuole essere sinistra la sinistra deve cambiare, abbracciare il nuovo. Ma il nuovo, il diverso è necessariamente l’altro dalla sinistra. Per la sinistra il nuovo è la destra. In entrambi i casi il destino della sinistra è il suo annullamento. E in questa logica rientra la scelta renziana del nuovo.

Renzi identifica il nuovo con il concetto di terza via, teorizzato da Giddens e fatto proprio dal suo mito Tony Blair. La definizione “terza via” è stato usato per la prima volta da Clinton nel 1996. Ci troviamo dunque di fronte ad un “nuovo” che ha conosciuto il suo massimo splendore circa 15/20 anni fa. La terza via nasce come “arrangiamento” in termini di sensibilità sociale del li­berismo duro e puro imperante. Col tempo leader di “sinistra” come Clinton e Blair, sono stati spazzati via da un liberismo puro che, rispetto alla copia di sinistra, ha la forza di essere l’originale.

Oggi, con la crisi, il liberismo stesso mostra la corda. Tuttavia non è stata an­cora trovata un’alternativa autorevole al pensiero unico.

Ed infatti Ramonet ha coniato la definizione “Pensiero unico” proprio per­ché designa una situazione in cui non si percepisce neanche più la possibi­lità di un’alternativa.

Nel numero di gennaio 1995 di Le monde díplomatique Ignacio Ramonet usa per la prima volta la parola pensiero unico “,Pensée‑unique” e ce ne forni­sce la prima definizione «Che cos’è il pensiero unico? E’ la trasformazione in termini ideologici che si pretendono universali, degli interessi di un insieme di forze economiche, e specificamente di quelle del capitale internaziona­le». La definizione designa il neoliberismo come ideologia fondante e come giustificazione, della prevalenza dei poteri forti, nei confronti delle classi più deboli sino ad allora tutelate dallo “Stato sociale”. Una lotta di classe capovolta in cui, anziché essere il proletariato a lottare contro il capitale, è il capitale a dichiarare guerra alle garanzie che le classi più deboli erano riuscite a strappare in anni di lotta.

La definizione pensiero unico sopravvive per alcuni anni, soprattutto in Fran­cia, finché anche del pensiero unico, si perdono le tracce. Conquistata la piena egemonia, il neoliberismo non è più il pensiero unico, definizione che conser­va una connotazione critica, ma è diventato una forma, riconosciuta di verità incontestabile, avendo raggiunto con successo, tutti i suoi obiettivi.

La crisi della sinistra

Da quando viviamo nel pensiero unico, identifichiamo l’esistente con il mi­gliore dei mondi possibili (anche se molti ricordano ancora mondi migliori) e la sinistra e il pensiero critico, con il terrorismo, il dogmatismo e la negazione di quelle libertà, che il liberismo esalta come unico valore.

Tendiamo anche a pensare di aver raggiunto una sorta di verità atemporale ed eterna. Ma non è sempre stato così. Prima tutta la cultura, i media, la stampa, le case editrici, erano quasi esclusivamente di sinistra. t il mondo che, ancora oggi Berlusconi descrive come “comunista”.

Il pensiero critico non accetta l’esistente e vuol cambiare il mondo. E negli anni ’70 il mondo è cambiato veramente, con la conquista dei diritti e lo Stato sociale. E negli anni ’80 che tutto torna indietro e si pongono le radici del pensiero unico.

Il pensiero unico, così come lo conosciamo, ha due matrici, una attiva ed una passiva. Si basa cioè su una dottrina specifica, il neoliberismo. La matrice pas­siva consiste nella mancata confutazione da parte di quella che doveva essere l’opposizione, il pensiero critico.

Fino all’avvento della scuola di Chicago, da cui il neoliberismo scaturisce, la corrente economica dominante era costituita dal pensiero di Keynes. Nell’ap­piattimento astorico con cui rileggiamo gli eventi, tendiamo ad accreditare al Neoliberismo il risultato di aver resto gli Stati Uniti il Paese più ricco del mondo. Ma la verità sta piuttosto nel contrario. La ricchezza e la potenza degli Usa scaturisce da una politica economica neokeynesiana che aveva riportato la prosperità dopo la crisi del ’29.

Alla luce di quella crisi era quasi impossibile credere alla metafora liberista di Adam Smith per cui il mercato è governato da una mano invisibile che lo guida infallibilmente verso le scelte economicamente vincenti.

La scuola di Chicago si forma intorno agli anni ’70 e rimane a lungo ai mar­gini della stanza dei bottoni. Le prime prove vengono fatte con le dittature sudamericane appoggiate dagli Stati Uniti. Il risultato è quel disastro eco­nomico che obbligherà la maggioranza della popolazione di quei Paesi ad emigrare in Occidente.

Negli anni ’80 c’è un cambiamento radicale anche negli Stati Uniti e in Eu­ropa con Reagan e la Tatcher e la memoria della crisi viene definitivamente rimossa alla luce di una concezione che vede nel mercato la fonte di ogni bene e nell’intervento dello Stato, la possibile fonte di ogni male. “Bisogna affamare la bestia”, abbassare le tasse, disarmare lo Stato. In questo contesto l’ideologia emergente non trova opposizione.

In quegli stessi anni in filosofia si afferma il postmoderno che sancisce la fine delle grandi narrazioni, cioè dei grandi sistemi filosofici, delle ideolo­gie. Il pensiero debole, partendo da istanze di natura morale (gli esisti nefa­sti delle ideologie come matrice del terrorismo), auspica un indebolimento del concetto di verità.

Lo stesso postmoderno afferma l’eterno presente come unica dimensione e come fine della storicità. E la storicità è già straniamento e critica perché ci rivela che altri mondi sono possibili.

La fine della verità e della storia hanno l’effetto paradossale di disarmare il pensiero critico, e di rafforzare nel contempo l’esistente come unica verità possibile. Il presente non ha più anticorpi. La sterilizzazione delle ideologie ha prodotto un’ideologia inattaccabile perché priva di contraddittorio e di antagonisti.

Ma il neoliberismo poteva essere prontamente confutato, proprio sulla base dei suoi stessi presupposti.

Abbiamo detto che il neoliberismo non è solo una dottrina economica, ma anche una filosofia. Il referente principale a livello di teoria è Friedrich Von Hayek, quello stesso Von Hayek a cui Karl Popper dedica il suo libro più fa­moso Congetture e confutazioni: secondo Popper il marxismo è un’ideologia e non una scienza, perché si sottrae ad ogni tipo di confutazione. Per Popper non esiste una verità eterna. Una dottrina resta in vigore fin tanto che non viene confutata. Ma per ottenere il requisito di scientificità deve, appunto, poter essere sottoposta a verifica.

Il marxismo era quindi per Popper un’ideologia ben prima del crollo del muro di Berlino, non tanto perché oggettivamente fallimentare, quanto perché, presentandosi come una teoria non verificabile, si sottraeva a qual­siasi falsificazione.

Lo stesso dovrebbe valere per il Neoliberismo. Anche volendo negare che le dottrine neoliberiste siano alla base della crisi che dal 2008 ci assilla e non mostra prospettive di soluzione, il solo fatto di essere percepito come pensiero unico sottrae il neoliberismo ad ogni possibile falsificazione e ne fa un’ideolo­gia secondo i suoi stessi presupposti teorici. E veniamo al presente.

Cosa possiamo fare? Quando cambia un ordine del discorso ogni parola, ogni concetto che si riferisce all’ordine precedente viene percepito con disgusto e rifiutato con fastidio. Oggi l’elettorato percepisce con fastidio ogni tentativo di teorizzare un sistema alternativo. Ogni critica rafforza il pensiero unico.

D’altronde i sopravvissuti della sinistra hanno rinunciato da tempo a trovare una falla nel sistema. Vogliono alternative radicali, come la decrescita felice e come tali utopiche perché irrealizzabili a partire dal contesto attuale. Se ci vogliamo muovere in campo parlamentare, l’unico sistema è la decostruzione. Mi spiego meglio. Questo capitalismo finanziario è qualcosa di diverso dal capitalismo produttivo su cui si concentravano le analisi di Marx. Oggi essere di sinistra non viene percepito tanto nello schieramento con la classe dei lavo­ratori, piuttosto che degli imprenditori. Al contrario la dicotomia è tra lavoro e produzione materiale e mercato e ricchezza finanziaria. Come siamo arrivati qui? Ci siamo arrivati con una serie di leggi che non sono neppure tantissi­me, ma che potrebbero essere riformate solo a livello internazionale, europeo come minimo. Quindi il primo obiettivo da porsi è la creazione di una sinistra europea che combatta le pressioni delle lobbies economiche in favore di alcuni diritti umani irrinunciabili.

Se non si può fare la rivoluzione si possono almeno cambiare le leggi che, es­sendo relativamente recenti, non sono sicuramente né naturali, né eterne. Per fare questo bisogna, prima di tutto, liberarsi di una serie di pregiudizi che, pa­radossalmente, sono condivisi anche dalla sinistra, intendendo per sinistra i partiti progressisti al governo che non fanno che alimentare il pensiero unico.

Gli idoli della sinistra

Ormai essere di sinistra, o più blandamente progressisti, significa essere fun­zionali al sistema. Oggi è il sistema stesso ad organizzare l’opposizione. E gli idoli della sinistra contribuiscono a consolidare il sistema.

Dice bene Grillo “senza di me ci sarebbero contestazione e rivolta”. La prote­sta spicciola, l’impegno sul territorio, il localismo, la divisione del mondo in buoni e cattivi, l’identificazione di capri espiatori, hanno la funzione, voluta o

inconscia, di mantenere lo status quo, di vedere il male nel dettaglio, nel mal­ funzionamento del sistema e di tenere lontana l’attenzione dal nocciolo del problema: il neoliberismo che ha conquistato il mondo con la sua personale verità. Ormai non esistono alternative al sistema e se le cose non vanno bene come dovrebbero, se il mercato non produce incessantemente ricchezza per tutti, la colpa è attribuita ad una serie di problemi che ogni giorno il giorna­lismo d’inchiesta, la televisione, internet e gli stessi partiti politici, additano come la matrice del male. Ma c’è di più. Creando falsi nemici e falsi obiettivi il sistema ottiene la collaborazione delle sue vittime.

Bisogna abolire lo Stato sociale: i giovani si indignano contro le pensioni dei genitori e dei nonni, ottenendo il risultato di cancellare di fatto il sistema pen­sionistico italiano. La politica è l’ultima istituzione che potrebbe intromettersi nei progetti delle banche e delle multinazionali? La politica viene additata come “casta”, e lo stesso termine “politica” genera repulsione nell’elettorato.

I sindacati non possono più difendere i lavoratori, perché bollati anche loro come casta. E le “riforme” non sono altro che l’abrogazione dei diritti acquisiti negli anni ’70. Ma passiamo all’analisi dei luoghi comuni.

La casta

Viviamo una crisi di dimensioni epocali. Il debito pubblico di tutti gli Stati è maggiore della ricchezza di tutto il mondo, cioè inestinguibile, ma pensiamo di poter rimettere l’economia in carreggiata, con una serie di piccole econo­mie che vanno a colpire i privilegi di quella che Stella e Rizzo hanno battezza­to 1a casta”, un gruppo di privilegiati, in genere politici o grandi funzionari, che sottraggono ricchezza allo Stato con i loro pranzi low cost alla bouvette di Montecitorio, le auto blu, i parrucchieri ed i sarti sempre disponibili, i passag­gi aerei gratuiti. Microeconomia per risanare la macroeconomia. Come vuo­tare l’oceano con il cucchiaino del caffé.

La corruzione

Dopo i privilegi legali o consolidati dall’uso o dalla legge, c’è l’assalto, questa volta illegale, ai soldi pubblici nella sanità, nelle grandi opere, nella protezio­ne civile. E’ vero che qui il danno è ingente e che la corruzione si è ormai estesa a tal punto nel Paese, da escludere da ogni campo produttivo gli onesti.

E’ anche vero però che la voragine del debito non nasce solo dagli sprechi e dai saccheggi, ma è insita piuttosto in un sistema atto a produrre debito di per se stesso, a favore delle banche e delle grandi organizzazioni internazionali e a sfavore dei bilanci degli Stati.

Non a caso in alcuni Paesi come l’Ecuador (l’altro è gli Usa!!!) tale debito è stato dichiarato immorale e, quindi, inesigibile.

In questo periodo storico il grosso del debito pubblico degli Stati non va a finanziare opere pubbliche o lo stato sociale (sanità, pensioni, istruzione) che sono invece oggetti di drastici tagli. Va piuttosto a pagare interessi sul debito pregresso, derivati imposti dalle banche su questo stesso debito ed infine, ma non per entità, a ripianare le passività delle banche nazionali derivanti dalla legge sull’unificazione tra banche di credito e banche d’affari.

Tutti sanno che una rata dell’Imu sulla prima casa è andata a finanziare i debiti del Montepaschi, ma forse non tutti sanno che la prima manovra Monti è andata a ripianare un debito di 3 miliardi in derivati, nei confronti di Morgan Stanley.

L’evasione fiscale

Anche la figura dell’evasore fiscale è presentata all’opinione pubblica come una delle radici del male. Uno spot dell’Agenzia delle entrate elencava: paras­sita del legno, parassita del cane, parassita intestinale, per arrivare al vertice della catena: il parassita sociale, l’evasore. Non ho nessuna simpatia per gli evasori fiscali, così come per i corrotti di cui sopra, ma vorrei ricordare un piccolo dettaglio. Con la globalizzazione il grosso delle tasse viene evaso, le­galmente, dalle multinazionali, ma anche dalle imprese italiane, che, avendo la sede nei paradisi fiscali, non versano quasi nulla nei Paesi in cui producono reddito, a differenza dei privati contribuenti.

I derivati

La metafora di questo procedere pragmaticamente, mettendo la testa sotto la sabbia, è la moltiplicazione del debito pubblico degli Stati e dei Comuni attraverso i derivati. Il federalismo ha voluto portare l’amministrazione sul territorio, qui ed ora, per arginare gli sprechi e sottoporre al controllo dei cittadini la spesa. 1 comuni si sono mobilitati per fornire i servizi essenziali subito e relegare la spesa nei bilanci futuri attraverso la scommessa dei deri­vati. Sono stati travolti dai debiti.

In un mondo che si rifiuta di guardare al futuro, nel nostro futuro è già scritta la fine dello stato sociale, che va di pari passo con la posposizione dei debiti, attraverso i derivati. Prima si programmava lo sviluppo, oggi ‘Tare” diventa programmare la crisi.

Il fare

Uno dei pilastri del consenso elettorale in Italia, è costituito, da trenta anni a questa parte, dalla retorica del fare. Era un uomo del fare Berlusconi. E’ oggi un uomo del fare Renzi. Ma sembra impossibile che nessuno si ponga la domanda “Fare cosa?” Berlusconi si vanta di avere fatto, prodotto un numero enorme di leggi. Bene. Quando Berlusconi ha preso in mano il governo del Paese, l’Italia era il settimo Paese del mondo per importanza economica.

In seguito all’indefessa attività berlusconiana, è scivolato di parecchie posizio­ni. Nel suo colloquio con Lucia Annunziata, Del Rio ha detto “si tratta di fare quelle riforme che Berlusconi aveva preannunciato e che non è riuscito a por­tare a termine”. Non è che se Renzi le porta a termine, scivoleremo all’ultimo posto nella graduatoria mondiale? Non sempre fare è utile. Spesso è dannoso.

La nave affonda. Non possiamo stare con le mani in mano. Perché non allar­gare allora con l’accetta, la falla nello scafo? La politica del fare corrisponde, metaforicamente, a nascondere le crepe con lo stucco.

Tutto quello che è riflessione, analisi, tentativo di comprensione del problema, è bollato oggi con il termine spregiativo di ideologia. t ideologia la politica in senso “alto” come studio teorico dei diritti o dei doveri sociali, ma anche e semplicemente come tentativo di analisi globale e non necessariamente con­tingente delle cose. In questo modo non si rinuncia a cercare una soluzione reale dei problemi che ci assillano, per trovare soluzioni tampone che soddi­sfino, momentaneamente, le richieste delle lobbies.

L’imperativo è fare comunque qualcosa, indipendentemente da ogni rifles­sione e senza distinzione politica tra Destra e Sinistra. Non a caso sul da farsi Berlusconi ha proclamato di avere con Renzi «assoluta sintonia». Ma ha detto di più: «Le cose che vogliamo fare erano state già votate dal mio governo. Se non sono state attuate è perché la sinistra ha proposto un refe­rendum che ha cancellato tutto».

Niente come il referendum è espressione del potere popolare. Quella stessa opinione pubblica che ha votato in un senso al referendum, si esprime oggi, almeno secondo Renzi, in direzione opposta. Il fatto è che le scelta non vanno più alla radice delle cose, non sono motivate ma spesso derivano in automati­co da come viene posta la domanda.

Il nocciolo della modifica è ridurre il potere parlamentare (dimezzando il Par­lamento) a favore di un rafforzamento dell’esecutivo.

Farò due esempi del modo in cui la domanda in proposito può essere posta:

1. Vuoi rinunciare alle garanzie costituzionali in favore di un unico leader, esponendoti ai rischi di un abuso di potere?

2. Vuoi eliminare una volta per tutte l’odiosa casta dei politici che man­giano a spese del popolo e realizzare finalmente un grosso risparmio della spesa pubblica?

Le due domande dicono la stessa cosa, ma richiedono risposte diverse. E l’eletto­rato sembra non accorgersi di aver già espresso il suo parere in senso contrario. Morale. Entrambe le opzioni presentano vantaggi e svantaggi, ma prima di “fare”, in questo caso votare, bisognerebbe riflettere e capire. Le scelte di Renzi si basano su una serie di postulati.

Il problema non è che siamo giusti o sbagliati. Il problema è piuttosto che vengano percepiti come “naturali” e come tali risultino indiscutibili. Se met­tiamo al centro questi postulati, la Costituzione italiana è sbagliata. Ma la Costituzione non è né giusta né sbagliata, parte da presupposti opposti. Cambiare la Costituzione presuppone qualcosa che rimane nel tempo. Le scelte di Renzi, basate sugli attuali convincimenti della maggioranza, po­trebbero rivelarsi effimere.

L’alternanza maggioritaria a cui facevamo riferimento all’inizio non è tra due diverse concezioni politiche, ma tra due candidati che ci mettono la fac­cia. Se il problema è solo di fare, vince il più decisionista. lo trovo Renzi simpatico come persona. Non condivido le sue idee, o meglio, la sua convin­zione che le idee siano superflue.

Secondo me prima di fare bisogna decidere cosa fare.

E invece, l’imperativo attuale a livello ideologico è che bisogna fare qualcosa comunque, possibilmente subito e senza esitazioni. Ma fare non significa ne­cessariamente fare bene. Pensiamo al dr. House. Per tutta la puntata del te­lefilm applica terapie ai suoi pazienti che continuano a peggiorare. Ma è solo quando raggiunge la diagnosi esatta che il paziente guarisce. Renzi mi sembra un sostenitore del tutto e subito. L’intervento è riuscito, il paziente è morto.

La comunicazione

Se non contano più programmi e contenuti, ma solo i candidati ed il loro gra­dimento presso il pubblico, il vero centro del problema, non è più la teoria, ma la comunicazione. Renzi piace perché sa comunicare.

La comunicazione di Renzi non è mai diretta al suo auditorio, al contesto in cui è inserito, ma scavalca i potenziali interlocutori, per rivolgersi diretta­mente all’elettorato. Renzi in Senato non parla ai Senatori, nella conferenza stampa non parla ai giornalisti. Il suo messaggio scavalca il pubblico in sala per raggiungere il pubblico a casa, secondo una logica televisiva che Renzi ha introiettato e fatto propria.

Il discorso di Renzi è apparentemente sconclusionato, come appare dalle pa­rodie di Crozza. Non c’è l’elaborazione e lo svolgimento di un tema coeren­te, come avviene sulla pagina scritta o nella tradizione dell’oratoria politica. Renzi salta di palo in frasca. Ciò nonostante il suo messaggio si fissa profon­damente nell’inconscio di quello che, prima di essere il suo elettorato, è il suo pubblico. Renzi fa proprie tecniche della pubblicità e della comunicazione del net: mai periodi complessi, con coordinate e subordinate. Sempre “pillo­le”, atomi, tweet di certezza, che emergono dal flusso del discorso e si fissano profondamente nell’inconscio con un processo di ripetizione. La nostra ge­nerazione ha memorizzato attraverso la comprensione del testo. Renzi è un creatore di ritornelli, di tormentoni, di tweet. Identifica i suoi punti chiave e nel flusso disordinato del discorso, li recupera ritmicamente con la ripetizio­ne. Ci inculca sulle sue certezze con un procedimento pavlovriano in cui non c’è niente da capire, ma molto da appetire.

Renzi fa riferimento all’immagine, alla cartellonistica, alle icone. Nella socie­tà dell’immagine l’immagine è vista come concreta, reale, tangibile, rispetto all’astratta inconsistenza del concetto. Come per San Tommaso, l’immagine può essere toccata con mano, esiste, ha un’evidenza. E, ancora una volta, ripete in eterno un unico messaggio. L’apprendimento del bambino si fissa per immagini ripetute. Le icone pubblicitario, come ci insegna Warol, nascono dalla reiterazione. Anche Berlusconi parla sempre al suo elettorato, scaval­cando il suo auditorio. Ma il suo stile è diverso, è uno stile che si è formato nell’intrattenimento ed ha il suo punto di forza nello storytelling.

Berlusconi costruisce storie, anche un po’ inquietanti, identifica complot­ti e gioca molto sulla carica di identificazione che queste storie producono sull’elettorato. In un certo senso è più “antico”. Gioca coi sentimenti, le an­sie, le paure, le aspirazioni.

Renzi si esprime per tweet, per battute, e tende a reiterare i suoi tweet fin­ché non li introiettano a livello subliminale come il famoso ritornello “sarà capitato anche a voi, di avere una musica in testa…”. La psicologia sociale ci insegna che ciò che è ripetuto e condiviso da tutti diventa “vero”, naturale, inconfutabile.

* dirigente e autore televisivo, esperto di comunicazione.

Da Alternative per il socialismo n. 31

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