Per un reddito di cittadinanza “mirato”. Una proposta di Bruno Guglielminotti

precarietàora stop 2006Per un reddito di cittadinanza “mirato”. Una proposta

Ha ripreso forza recentemente il dibattito su una tematica, in realtà già affrontata diversi anni fa, ben prima della crisi, dalla sociologa Chiara Saraceno, riguardante l’esigenza di istituire un reddito di cittadinanza. Di fatto l’opportunità di garantire una fonte di sostentamento ai cittadini che non possono contare sulle risorse necessarie a un’esistenza dignitosa, pur apparendo oggi particolarmente pregnante, deve tuttavia tener conto di un contesto socio-culturale che, sebbene caratterizzato diffusamente dalla difficoltà di reperimento e mantenimento di un’attività lavorativa, mantiene tuttora viva una mentalità che deve  fare i conti con la tradizionale logica secondo cui i diritti di cittadinanza delle persone sono commisurati, in genere, all’entità del reddito da lavoro.

     Ora occorre per inciso rimarcare che la crisi che stiamo attraversando è “di sistema”, non è ciclica, e il suo superamento inciderà molto poco sui livelli occupazionali considerando quanto lo sviluppo tecnologico rende la manodopera sempre meno indispensabile. Da qui la riflessione porterebbe quasi automaticamente alla ”storica” massima: “lavorare meno, lavorare tutti” (secondo una condivisibile logica redistributiva del lavoro), ma se non è utopistico immaginare un liberismo dal volto umano, allora può essere auspicabile una politica che non solo affronti l’annosa questione del costo del lavoro e degli oneri fiscali e burocratici a carico delle aziende (già esistenti o che intendono nascere), ma che ponga coraggiosamente l’attenzione sulla necessità di ridurre l’orario di lavoro, almeno nelle unità produttive le cui maestranze siano adibite alle catene di montaggio o a lavori pesanti e logoranti o ripetitivi nonché a tutti i lavoratori manuali che hanno un’età superiore ai 60 anni.

A parte questo inciso, sarebbe in ogni caso opportuno realizzare una serie di interventi che affrontino in modo radicale le sempre più frequenti situazioni di grave disagio dovute alla diffusione di nuove povertà materiali e alla riemersione di una miseria antica (le povertà di ritorno). E non si tratterebbe di un’operazione innovativa: di fatto, fin dal secondo dopoguerra, di fronte a tale fenomeno, in tutti i Paesi d’Europa (tranne che in Italia e in Grecia) sono state istituite e sono oggi operanti a favore di chi si trova in una condizione di esclusione lavorativa variegate forme di reddito di base secondo modalità e misure che variano da nazione a nazione. Ma nel nostro Paese, a parte il sostanziale accordo tra gli economisti e le varie forze politiche sulla necessità di tale innovazione, è accesa la discussione non solo sui modi di attuarla, ma, soprattutto, sui suoi temutissimi effetti boomerang.  Sarebbe infatti necessario superare pregiudizi e resistenze che trovano una fonte di legittimazione nei guasti prodotti da un’endemica politica di tipo assistenzialistico in particolare nel Meridione. Emerge la preoccupazione, comprensibile, che vengano incoraggiati atteggiamenti e comportamenti di indifferenza rispetto al reperimento di un’occupazione e che un tempo non occupato dal lavoro, e dunque totalmente per sé, in una realtà in cui non si è adeguatamente sviluppata ed interiorizzata una cultura e un’etica del tempo libero, si traduca nella diffusa e apatica rappresentazione di un “vuoto” difficilmente colmabile e in un’assenza di stimoli alla crescita personale e culturale. Vi è inoltre da considerare il rischio risiedente nella pregressa e per molti cronica condizione di marginalità che avendo esasperato sentimenti di sfiducia, perdita di progettualità e di autostima, potrebbe rendere problematico, in certi casi, adottare tout-court strategie di utilizzo razionale delle risorse monetarie ottenute.  Può inoltre succedere che quanti ricevono tale forma di sostegno, sentendosi già in qualche misura garantiti dal punto di vista economico, siano indotti ad accettare occupazioni in nero più facilmente.

Rischi di cui è necessario tener conto (si lascia ai detrattori di questa forma di sostegno al reddito il compito di  individuarne altri) nel momento in cui gli effetti nefasti della perdurante crisi pongono di fronte alla necessità di introdurre un reddito di cittadinanza (che andrebbe comunque preceduto e accompagnato da un’opportuna campagna educativa all’uso congruente di questa innovazione) in quanto è innegabile che, al di là dei notevoli vantaggi per l’economia derivanti dal notevole ampliamento della domanda di beni di consumo, esso indurrebbe una serie di altri effetti virtuosi. Per fare alcuni esempi: per quanto riguarda i giovani, componente sociale più drammaticamente e diffusamente esclusa dal mondo del lavoro, si otterrebbe un’accelerazione del processo di transizione famiglia-autonomia, riducendo di molto l’età dello svincolo famigliare, in Italia particolarmente elevata; si raggiungerebbe sicuramente anche l’effetto di limitare la durata del gap tra il termine degli studi e il reperimento di un’attività lavorativa, che potrebbe più facilmente essere reperita in loco riducendo la “fuga di cervelli” che impoverisce il nostro Paese. I giovani diverrebbero comunque più inclini a rischiare, intraprendendo attività autonome o aggregate che implichino investimenti minimi di capitale.

Più in generale si assisterebbe ad un diverso atteggiamento delle banche a favore dei richiedenti un mutuo poiché il reddito disponibile, per quanto poco elevato, garantirebbe comunque una solvibilità nel tempo; si avvierebbero meccanismi di cooperazione tra più persone che mettono in comune le risorse disponibili per intraprendere attività creative e imprenditoriali altrimenti irrealizzabili singolarmente; si incrementerebbe il potere contrattuale dei lavoratori; si ridurrebbe anche il periodo di transizione tra la perdita di un lavoro e il reperimento di un’altra occupazione, rendendo possibili modalità di flessibilità per scelta e non “per destino” (operando anche al fine di implementare le modalità di effettuazione e l’efficacia dei corsi di formazione professionale); si offrirebbe ai famigliari delle persone recluse una possibilità comunque di sopravvivenza e a quanti sono stati reclusi l’opportunità di reintegrarsi disponendo di un reddito tale da porli in grado di opporsi alla tentazione/necessità di ricadere in comportamenti devianti. In sostanza: l’introduzione di tale sostegno economico permetterebbe di affrontare efficacemente le problematiche di quanti, trovandosi in una situazione di esclusione insostenibile, sono deprivati dei diritti di cittadinanza.

Il RCM produrrebbe inoltre l’effetto di mantenere più saldi i vincoli famigliari nei casi in cui siano stati messi in crisi dalla riduzione delle risorse economiche. Un aspetto non secondario sarebbe costituito dall’acquisizione /rappresentazione di una maggiore visibilità sociale con conseguente ampliamento degli spazi e delle occasioni di partecipazione alla vita della collettività, favorendo l’inserimento in organizzazioni no profit e lo sviluppo di attività di volontariato individuali e ciò sulla base della considerazione che la produzione di valore non è legata unicamente ai consumi e alla produzione di merci, bensì anche alla produzione di creatività e di rapporti significativi, nonché alla riduzione della conflittualità sociale e della delittuosità “per necessità”.

Dato per scontato che un modello di tipo universalistico è oggi improponibile (del resto è praticato unicamente in Alaska), sarebbe forse utile adottare una mediazione tra questa forma di sostegno e quelle attualmente in essere in Europa laddove gli interventi legati a redditi di inclusione hanno mostrato spesso i limiti di una logica di tipo assistenziale, sulla base di un principio di sussistenza invece che di esistenza. Tale forma di mediazione potrebbe consistere nell’istituzione di un “reddito di cittadinanza mirato” (da qui in poi “RCM”), dunque non universalistico e indifferenziato, bensì erogato indipendentemente da quanto si è potenzialmente in grado di produrre, ma unicamente tenendo conto dei bisogni delle persone in difficoltà; un reddito il cui importo deve essere di entità tale da permettere una vita almeno in qualche misura “dignitosa” e, inoltre, temporalmente illimitato qualora i fruitori non abbiano la possibilità di affrancarsi da una condizione di povertà e di esclusione sociale e lavorativa. Naturalmente sarà necessario che i richiedenti forniscano ai Centri per l’Impiego gli elementi atti a comprovare tale condizione, e sarà altrettanto indispensabile adottare forme di controllo capillare ex post per evitare e sanzionare gli abusi; inoltre il sostegno al reddito cesserebbe nel momento in cui gli interessati avessero l’occasione di rientrare nel mondo del lavoro. E’ noto che in altri Paesi si decade d’imperio dopo il terzo rifiuto di un’occupazione proposta dai vari enti di collocamento; eventualità da noi decisamente remota perché, a parte le difficoltà in cui si muovono i nostri Centri per l’impiego (da qui l’esigenza di riformare e potenziare preliminarmente tali istituzioni territoriali), sono sicuramente più frequenti situazioni caratterizzate da un’incolpevole cronicizzazione della propria esclusione lavorativa

Titolari di questo nuovo sistema di protezione sociale sarebbero (per fare alcuni esempi) quanti, in età non inferiore ai 25 anni, non hanno mai potuto inserirsi nel mondo del lavoro, i disoccupati che non possono più contare sulle forme di protezione sociale e quanti non ne hanno mai avuto diritto, chi svolge un’attività lavorativa precaria e/o saltuaria, i possessori di pensioni e di altre forme di sostegno economico di entità assolutamente inadeguata, i titolari di partita iva che hanno dovuto chiudere la propria attività, nonché gli immigrati residenti nel nostro paese, purché lo siano da almeno un anno dalla data di entrata in vigore del provvedimento (al fine di evitare l’effetto calamita derivante da tale innovazione).

Si potrebbe proporre, a livello di ipotesi, che l’importo del reddito, esentasse ed erogato a cura dell’INPS (e non dai servizi sociali, per uscire da un’ottica meramente assistenziale), debba oscillare tra un minimo di 600 euro mensili per i single in età dai 25 ai 34 anni la cui famiglia di origine sia collocata in una fascia di reddito bassa (da stabilire), di 800 se in età superiore, di 1.000 per le coppie senza figli e di 1.200 per i nuclei famigliari con prole a carico. Appare poi naturale che nei confronti dei fruitori di tale reddito, secondo le proprie possibilità (escludendo quindi i pensionati e i titolari di pensioni di invalidità…), si pongano in essere forme di “restituzione” rappresentate da prestazioni lavorative di rilievo socio-economico e culturale (attività di assistenza alle persone, di manutenzione del territorio, di salvaguardia del patrimonio artistico e archeologico ecc…) per un numero di 20 ore settimanali, stabilite dalle organizzazioni del pubblico o del privato sociale sulla base delle esperienze lavorative pregresse e della formazione posseduta.

Naturalmente è impossibile prevedere a priori tutti gli effetti di un’innovazione che inciderebbe profondamente sugli stili di vita e sull’economia del Paese (né si può pretendere che qui si debbano indicare le coperture finanziarie come nel caso di un disegno di legge). Tenendo tuttavia conto del fatto che gli esiti negativi potrebbero essere affrontati adottando tempestivi e specifici correttivi in itinere, si è del parere che il confronto costi-benefici sarebbe sicuramente a favore di questi ultimi. Tale innovazione rappresenterebbe un passo significativo verso la costruzione di una repubblica che ponga a fondamento, oltre al lavoro, la dignità dei singoli cittadini.

Bruno Guglielminotti, 2014

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