Jihad e feticci in Mali, di Elisa Pelizzari

ACCOGLIENZATutto è nel Corano: il testo sacro può dun­que essere uti­liz­zato a fin di bene o di male», afferma con sem­pli­cità Sou­ley­mane Maïga, un impor­tante imam di Bamako. La capi­tale maliana è ancora incre­dula per l’attentato di stampo jiha­di­sta del 7 marzo scorso uffi­cial­mente riven­di­cato dai mili­tanti di Al-Mourabitoune, agli ordini di Mokh­tar Bel­mo­kh­tar, noto traf­fi­cante, un tempo legato ai gruppi armati alge­rini (Gia) e poi con­ver­tito all’ideologia salafita.

Maïga dirige la pre­ghiera nella moschea di Sébé­ni­koro, uno dei sei comuni del distretto di Bamako, ed è ori­gi­na­rio di Gao. La sua figura minuta si sposa per­fet­ta­mente con il tono pacato che ado­pera per spie­gare quanto, agli occhi di tanti, nell’islam come al di fuori dell’ambito reli­gioso, appare incom­pren­si­bile: come si pos­sono legit­ti­mare atti di estrema vio­lenza ricor­rendo al nome di Dio? Il suo punto di vista – lon­tano da orien­ta­menti sala­fiti che si rifanno, tal­volta in maniera pre­te­stuosa, al pen­siero del teo­logo arabo Muham­mad Bin Abd al-Wahhab (XVIII sec.) –, è quello di chi ritiene una realtà tan­gi­bile sia la pre­senza di satana (shay­tan) nel cuore delle per­sone, sia la facoltà, per gli indi­vi­dui, di uti­liz­zare il Corano in maniera «inversa», distor­cen­done il mes­sag­gio di mise­ri­cor­dia. Non sug­ge­ri­sce dun­que una let­tura poli­tica degli eventi attuali, con accenni anti­oc­ci­den­tali o di con­danna rispetto a una moder­nità che relega la fede a una sfera pri­vata, ma rimanda a valori fon­da­men­tali e al libero arbi­trio umano. Tali con­cetti appa­iono forse desueti, eppure, per com­pren­dere l’islam nel con­te­sto sahe­liano, biso­gna ade­guarsi al lin­guag­gio uti­liz­zato in loco, al modo in cui la gente (il Mali è un paese al 90% musul­mano) per­ce­pi­sce il mondo, avendo pre­sente un ele­mento di fondo: la dimen­sione del «non cre­dere» all’intervento divino, cioè all’intromissione di una com­po­nente sovran­na­tu­rale nella vita quo­ti­diana, è qui un’opzione scar­tata a priori.

La por­tata del fat­tore reli­gioso è sot­to­li­neata, sep­pure con altra valenza, da Omar Sylla, con­su­lente del mini­stero dell’Istruzione e mem­bro della con­fra­ter­nita Tija­nia. Che rileva – con mal­ce­lata iro­nia – come l’attacco al bar La Ter­rasse abbia col­pito un luogo «pec­ca­mi­noso», sim­bolo di lus­su­ria. Gli assa­li­tori (uno dei quali sarebbe stato ucciso dalla poli­zia in un’irruzione nel suo nascon­di­glio, il 13 marzo) non si sono dun­que diretti in maniera esclu­siva con­tro gli stra­nieri, ma hanno pre­teso di lan­ciare un mes­sag­gio di carat­tere «morale», che li avrebbe nobi­li­tati agli occhi della popolazione.

Osser­va­zioni del genere bilan­ciano una visione che inqua­dra la crisi maliana in chiave di stra­te­gie e gio­chi di potere met­tendo, al cen­tro, le riven­di­ca­zioni di auto­no­mia dell’Azawad.

Paul Pou­diougo, di con­fes­sione cri­stiana e diret­tore della casa edi­trice Togouna, insi­ste con fer­mezza sulla dif­fi­coltà, per il governo in carica, di man­te­nere posi­zioni lai­che, come pre­vede la costi­tu­zione del 1992, e giunge ad accu­sare la Fran­cia d’ingenuità, nei con­fronti delle forze del nord che oggi si rico­no­scono, sep­pure con sfu­ma­ture signi­fi­ca­tive, nella Coor­di­na­tion des Mou­ve­ments de l’Azawad (Cma). Egli sostiene che i nego­ziati di pace in corso in Alge­ria non sfo­ce­ranno in un accordo dura­turo: i tua­reg armati e i gruppi inse­diati nella regione (dal Mou­ve­ment Natio­nal de Libé­ra­tion de l’Azawad, Mnla, all’Haut Con­seil pour l’Unité de l’Azawad, Hcua, più i rela­tivi sot­to­gruppi nati da scis­sioni ope­rate dai sin­goli lea­der) ambi­scono a man­te­nere il caos per gestire a pia­ci­mento i loro com­merci ille­gali, nell’ampia fascia del deserto sahariano.

Oltre a tutto ciò, vi è però un ele­mento che, in un’ottica socio-antropologica, potrebbe offrire una pro­spet­tiva di ana­lisi ori­gi­nale dello scac­chiere maliano, incu­nean­dosi nella realtà interna di que­sto affa­sci­nante paese. Come accen­nato sopra, la dimen­sione del sacro – l’influenza (bene­fica o fune­sta) del mondo «invi­si­bile» e delle sue com­po­nenti sull’esistenza della gente – segna in maniera inde­le­bile le men­ta­lità, indu­cendo le per­sone a vivere con un sen­ti­mento di pre­ca­rietà e di timore insor­mon­ta­bili. Que­sta per­va­si­vità del sacro impone, per essere in qual­che modo amman­sita, misure di sal­va­guar­dia, che si tra­du­cono di solito nel lin­guag­gio della pre­ghiera, dell’invocazione della pro­te­zione divina e in una sorta di nego­zia­zione col sovran­na­tu­rale che passa per il sacri­fi­cio rituale o, in casi estremi, per il martirio.

Para­dos­sal­mente, nem­meno il discorso jiha­di­sta sfugge a tale dina­mica, pur pre­sen­tan­dosi come avulso da super­sti­zioni popo­lari, rispetto alle quali pro­pu­gna il ritorno alla purezza di un islam delle ori­gini, quello dei primi seguaci di Mao­metto (il ter­mine «sala­fita» deriva dall’espressione al-salaf al-salih che, in arabo, desi­gna gli ante­nati e, in par­ti­co­lare, gli anti­chi com­pa­gni del Pro­feta). Il mes­sag­gio jiha­di­sta è riletto come por­ta­tore di una forza, l’islam com­bat­tente oggi vit­to­rioso, che non fa altro se non sovrap­porsi ad altre fedi o ad altre inter­pre­ta­zioni del Corano dif­fuse in area musul­mana. Insomma, vi sarebbe una sorta di com­pe­ti­zione nell’accesso al sacro, in cui risulta man mano imporsi, per­ché giu­di­cata più «effi­cace», una reli­gione piut­to­sto che l’altra (ad esem­pio, l’islam rispetto all’animismo tra­di­zio­nale) oppure una certa let­tura dell’insegnamento del Pro­feta rispetto alle molte dispo­ni­bili (si pensi alla con­trap­po­si­zione che si è creata in Africa fra l’islam waha­bita e le con­fra­ter­nite di matrice sufi o mistica).

La realtà del Pays Dogon e del suo capo­luogo, Ban­dia­gara, situato a circa 800 km a est della capi­tale, evi­den­zia in maniera con­creta que­sti com­plessi rap­porti. In mas­sima parte, i dogon ade­ri­scono all’islam, ma la pre­senza, fra loro, di cri­stiani, non è rara; ciò nono­stante l’influenza dell’animismo rimane un dato incon­tro­ver­ti­bile. Durante una serie d’incontri con gua­ri­tori locali, di fede musul­mana e resi­denti in vil­laggi che ospi­tano almeno una moschea e una pic­cola scuola cora­nica, abbiamo veri­fi­cato la capa­cità della cul­tura autoc­tona di assor­bire, nel seno della cre­denza isla­mica, il prin­ci­pio cru­ciale della ricerca di un con­tatto col divino per fron­teg­giare le disgra­zie e pre­ser­varsi dal male, non solo rispet­tando i 5 pila­stri della fede (in pri­mis, la pre­ghiera), ma ese­guendo sacri­fici rituali, che ven­gono con­si­de­rati come segno di un patto stretto col sovran­na­tu­rale, dal carat­tere prov­vi­so­rio e da rin­no­vare costantemente.

Sono la paura e il biso­gno d’ingraziarsi l’aldilà a for­giare il rap­porto col divino, e ciò indi­pen­den­te­mente dall’ambito reli­gioso in cui si evolve: fra jiha­di­smo e pra­ti­che feti­ci­ste, il Mali sem­bra dun­que stretto in una morsa in cui è la con­sa­pe­vo­lezza della fra­gi­lità umana a svol­gere il ruolo maggiore.

il manifesto, 18/3/15

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